Nei giorni recenti, si è diffusa la notizia che ha suscitato un vivido interesse nel campo della neurologia e oltre: il primo impianto di un chip nel cervello umano, un’innovazione portata avanti da Neuralink, l’azienda fondata dal visionario Elon Musk. Riflettendo su questo progresso, non posso fare a meno di pensare ai miei pazienti e ai loro familiari, colpiti da ictus, un gruppo a cui ho dedicato tutta la mia vita professionale e per i quali questa notizia ha scatenato un’ondata di speranze e aspettative. La tecnologia, che ho sempre considerato un potente alleato nella vita quotidiana e nella clinica, ora si presenta con una promessa ancora più grande: quella di aiutare a recuperare, o forse persino migliorare, funzioni motorie, cognitive e percettive compromesse.

È fondamentale prendere sul serio la prospettiva di un chip cerebrale, considerando l’impatto potenziale che potrebbe avere su milioni di persone in tutto il mondo, tuttavia, siamo consapevoli che sarà necessario del tempo prima che tali innovazioni diventino parte integrante della vita quotidiana e siano economicamente accessibili per la maggior parte delle persone. Il primo impianto di un chip elettronico nel cervello umano e la reazione entusiasta e speranzosa da parte di coloro che potrebbero beneficiarne direttamente, come i sopravvissuti a un ictus, è per me un segno di incoraggiamento.

Questo processo rappresenta un punto di svolta nel paradigma culturale, introducendo concetti del transumanesimo in neurologia e riabilitazione. Il transumanesimo, che promuove l’uso della scienza e della tecnologia per estendere e migliorare le capacità umane, trova una perfetta applicazione in questa nuova era. Qui, la fusione tra uomo e macchina non solo diventa possibile, ma anche trasformativa. Questo cambia radicalmente i confini tra le capacità umane naturali e quelle amplificate dalla tecnologia, proponendo un futuro in cui l’essere umano potrebbe superare i propri limiti fisici e cognitivi grazie all’integrazione con dispositivi avanzati.

Nella pratica della riabilitazione, tradizionalmente influenzata dalla cultura di riferimento, gli atti terapeutici si sono concentrati su modalità meccaniche: rinforzi, stiramenti, mobilizzazioni mirati ai muscoli e agli arti o modalità riflesse, punti grilletto, posture facilitanti e inibenti. Tuttavia, la recente iniziativa di Elon Musk, l’impianto di chip nel cervello, segna un cambiamento rivoluzionario. Invece di concentrarsi sulle articolazioni o i riflessi, quest’innovazione pone il cervello al centro dello sviluppo umano, rafforzando la sua posizione come organo chiave per migliorare le performance umane. L’applicazione iniziale di questa straordinaria innovazione potrebbe sembrare modesta: l’abilità di accendere e spegnere un cellulare semplicemente “pensando”, ma il potenziale è immenso, specialmente per i 15 milioni di persone colpite annualmente da ictus. L’auspicio è che un giorno, grazie al potere del pensiero, queste persone possano muovere di nuovo i loro corpi…

Già in precedenza, con l’utilizzo della stimolazione magnetica transcranica (TMS), si era iniziato a spostare l’attenzione dalle parti del corpo, che in caso di ictus non subiscono danni diretti, al cervello, il vero sito del danno. La TMS mirava ad attivare aree cerebrali inibite dalla lesione, agendo da fonti fisiche esterne. Ora, con l’introduzione dei chip, si stimola il cervello attraverso fonti esterne, ma integrate all’interno dei nostri tessuti biologici. I pazienti sperano che questi chip possano presto consentire loro di riutilizzare mani paralizzate o di camminare meglio.

Pur non essendo un ingegnere, trovo intrigante riflettere sulle sfide che il team di Musk dovrà affrontare per realizzare questi desideri. Ogni impianto dovrà essere specifico per ogni paziente, rispettando il sito della lesione cerebrale. Considerando che gli effetti di una lesione in una determinata area cerebrale possono influenzare altre aree distanti (un fenomeno noto come diaschisi), potrebbe essere necessario impiantare più chip. Questo approccio riflette un sorprendente spostamento nel pensiero neurologico: da un trattamento focalizzato sul fisico a uno che integra intimamente mente e macchina. Per comprendere dove posizionare questi chip cerebrali, il team di ingegneri e neuroscienziati deve immergersi in un mare di complessità: devono conoscere il ruolo funzionale di ogni regione e area del cervello, ovvero quali funzioni cognitive queste svolgono e come interagiscono tra di loro.

Nel 2024, anno in cui viene annunciato il primo impianto marchiato Neuralink, la nostra comprensione delle funzioni cerebrali si basa su un’evoluzione storico-scientifica davvero straordinaria. Ripercorrendo questo viaggio, partiamo dagli antichi Egizi, per i quali il cervello non aveva un valore funzionale o spirituale significativo. Durante la mummificazione, infatti, esso veniva estratto dal naso e scartato, mentre il cuore, ritenuto l’organo più importante, veniva conservato per il viaggio nell’aldilà. Questa visione cardiocentrica fu poi capovolta dalla prospettiva cerebrocentrica di Galeno nel II secolo d.C., che identificò il cervello come l’organo vitale del pensiero. Da quel momento, molti scienziati hanno dedicato la loro vita a mappare le funzioni specifiche di ciascuna regione cerebrale. Si pensi alla celebre frase del medico francese Paul Broca: “Parliamo con l’emisfero sinistro”, che individuava nell’emisfero sinistro, in particolare nel lobo frontale, alcune facoltà del linguaggio. Le guerre, con i loro conflitti a fuoco e le conseguenti ferite focali al cervello dei soldati, hanno ulteriormente agevolato lo studio di altri medici esperti, come Holmes e Lurija. Osservando i propri pazienti sopravvissuti a lesioni focali da colpi d’arma da fuoco, potevano determinare una “mappa” di quali funzioni corrispondessero alle varie regioni del cervello, un po’ come fece W. Penfield nel 1937 con l’homunculus motorio e sensitivo, offrendo una rappresentazione topografica del corpo nel cervello. La ricerca approfondita sulle localizzazioni cerebrali, che ha preso slancio grazie a scienziati come Strick e Preston e successivamente G. Rizzolatti, che hanno rivelato affascinanti correlazioni tra le diverse regioni del cervello e l’agire umano. Questi studi hanno mostrato che l’area motoria può svolgere il suo ruolo nella generazione del movimento solo attraverso l’interazione con altre aree incaricate di gestire le informazioni sensoriali.

È chiaro che l’uomo più ricco e influente del pianeta, Elon Musk, ha a sua disposizione le menti più brillanti che il denaro possa comprare – scienziati capaci di determinare, in seguito a una lesione cerebrale, quali aree e funzioni cerebrali attivare tramite l’interazione con il chip. La sfida successiva, che immagino dovrà affrontare Musk, riguarda il modo in cui il chip si integrerà con il tessuto biologico. Questo include capire quali stimoli in entrata e in uscita sono necessari per attivare determinate aree cerebrali coinvolte nella genesi dei processi cognitivi umani. Queste sfide non sono solo di pertinenza del mondo della tecnologia, ma dovrebbero anche stimolare profonde riflessioni nel campo della riabilitazione.

Se l’obiettivo a lungo termine della scienza e della tecnologia è quello di ripristinare il movimento degli arti stimolando specifiche aree cerebrali e le loro connessioni con le funzioni cognitive, quale ruolo possiamo giocare noi, come riabilitatori, nel frattempo?

L’ideale sarebbe proporre un nuovo modello di studio per la riabilitazione post-ictus, un approccio che focalizzi l’attenzione sull’attivazione dei processi cognitivi, in linea con l’ambizione del chip neurale di Elon Musk. In questo modo, la qualità del recupero sarebbe strettamente legata all’attivazione di questi processi, offrendo una nuova prospettiva e un nuovo strumento per affrontare le sfide della riabilitazione cerebrale. Nell’attesa che le ricerche nei laboratori di Neuralink raggiungano la loro piena maturità, i riabilitatori, guidati da questa nuova ipotesi di studio, potrebbero esplorare modi per attivare i processi cognitivi dei pazienti. Questo approccio potrebbe basarsi sull’offerta di esperienze sotto forma di esercizi che, tenendo conto delle alterazioni causate dalla lesione cerebrale, possano aiutare i pazienti ad apprendere, influenzando l’attenzione, la percezione, la memoria e la pianificazione del movimento. Gli esercizi proposti potrebbero creare un contesto in cui il terapista invita il paziente a utilizzare il proprio corpo e l’attivazione dei processi cognitivi per risolvere problemi specifici, adeguati alle alterazioni prodotte dalla lesione. Alcuni di questi esercizi potrebbero concentrarsi sul riconoscimento della posizione del corpo nello spazio (cinestesi) o sulla capacità di riconoscere la qualità del contatto con il mondo esterno (tatto), così come l’entità delle pressioni e il peso del proprio corpo e degli oggetti con cui si interagisce. Questo approccio è in linea con lo studio della riabilitazione neurocognitiva, un campo già esplorato da C. Perfetti fin dagli anni sessanta, che identifica un legame intrinseco tra il recupero e i processi cognitivi.

La qualità del recupero, sia esso spontaneo o guidato dal riabilitatore, dipende dall’attivazione dei processi cognitivi e dalla modalità della loro attivazione. C . Perfetti

In questo modo, il riabilitatore non è solo un esecutore di tecniche fisiche, ma diventa un facilitatore di un processo più complesso e integrato, che combina il fisico con il cognitivo, riflettendo la promessa e la complessità delle innovazioni in atto nel campo della neuroscienza. Comprendere la potenziale attrattiva di un apprendimento mediato da un impianto tecnologico, che elimina la necessità di lunghe e impegnative esperienze terapeutiche con un riabilitatore, è facile. Tale prospettiva offre un cammino più rapido e meno oneroso in termini di tempo ed energie. Tuttavia, mentre il magnate della tecnologia lavora per realizzare i sogni di milioni di malati, coloro che si occupano di riabilitazione quotidiana possono riflettere su questa notizia e agire di conseguenza:

Primo, la necessità di focalizzarsi sul cervello come organo centrale nella creazione degli esercizi, senza dimenticare il sistema nervoso di cui fa parte e il resto del corpo con cui interagisce.

Secondo, l’importanza di concepire esercizi che interagiscano con i processi cognitivi che il paziente deve attivare per imparare nuove abilità motorie.

Di fronte a ogni rivoluzione industriale, l’umanità si è divisa tra chi accoglie con entusiasmo lo sviluppo tecnologico e chi, temendo una possibile sostituzione dell’uomo con la macchina, lo guarda con sospetto. Dall’invenzione della ruota all’intelligenza artificiale, passando per il telaio, la tecnologia ha sempre svolto un ruolo di supporto e complemento all’essere umano, nonostante una certa sostituzione sia avvenuta. Questa stessa dinamica potrebbe verificarsi anche nel mondo della riabilitazione, così, mentre si discute di chip impiantati nei cervelli dei pazienti, potrebbe aprirsi uno scenario parallelo in cui gli stessi chip vengano impiantati nei cervelli dei terapisti. Questi dispositivi potrebbero aiutare noi terapisti a identificare gli esercizi più adatti per attivare i processi cognitivi dei propri pazienti o addirittura a cogliere il tono ironico nascosto dietro questo articolo scritto da un riabilitatore neurocognitivo.

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Bibliografia

HOLMES G. (1917), The symptoms of acute cerebellar injuries due to gunshot injuries, Brain, Volume 40, Issue 4, Pages 461–535.

LURIJA A. R. (1967) Le funzioni corticali superiori nell’uomo, Giunti Barbéra, Firenze.

PENFIELD W., BOLDREY E. (1937), Somatic motor and sensory representation in the cerebral cortex of man as studied by electrical stimulation, Brain.

PERFETTI C.C. (1986), Condotte terapeutiche per la rieducazione motoria dell’emiplegico, Libraio Ghedini Ed., Milano.

STRICK P. L., PRESTON J. B. (1982), Two Representations of the Hand in Area 4 of a Primate. I. Motor Output Organization, J Neurophysiol.

STRICK P. L., PRESTON J. B. (1982), Two Representations of the Hand in Area 4 of a Primate. II. Motor Output Organization, J Neurophysiol.

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